Oddjob

Mentre il mondo si è fermato e ci sembra di stare vivendo tutti in una grossa bolla immobile in cui le giornate si susseguono identiche le une alle altre, le vite di ciascuno di noi, ognuna nel proprio piccolo spazio, vanno avanti lo stesso, ogni giorno, sempre alla stessa velocità, e magari proprio a causa di questa grossa bolla cambiano improvvisamente direzione e magari si schiantano, e bisogna essere fortunati per poter uscire vivi dai resti dell’incidente.

È successo a me, non più tardi di un mese fa: mentre il mondo si prendeva una lunga pausa di riflessione, la mia vita ha subito una svolta radicale, e sono stato licenziato.

Non entro nel merito della questione, troppo lunga e complicata, e se non fai parte di quel piccolo spazio che la mia vita occupa all’interno della grossa bolla, neanche interessante.

Non mi sono perso d’animo, quando dicono che per ogni porta che si chiude c’è un portone che si apre da qualche parte, devono avere ragione. Basta sapere dove trovare il portone.

Ci sono un sacco di opportunità da cogliere, se non hai l’obbligo di presentarti al lavoro tutte le mattine cinque giorni su sette, e mi è sembrato il momento giusto per coglierle.

Il mio primo gesto per approfittare di questo cambiamento e cadere in piedi, è stato di cercarmi un altro lavoro. Certo, mica sono stronzo: va bene gli obblighi, ma se voglio continuare a mangiare ho bisogno di uno stipendio.

Stavolta, per cambiare, mi sono dato delle regole: il nuovo lavoro avrebbe dovuto garantirmi molto tempo libero, mi avrebbe permesso di viaggiare e di sfruttare la mia buona conoscenza delle lingue.

E avrebbe dovuto essere eccitante, e farmi sentire un figo.

Ho elencato le mie richieste alla signorina dell’agenzia di collocamento, che le ha inserite in un computer, poi ha pigiato un tasto e sullo schermo è apparsa un’inserzione interessante: agente segreto presso il servizio segreto britannico.

Cioè, io non l’ho vista di persona che pigiava sui tasti e compariva la scritta, non so se vi ricordate che c’è il coronavirus e se ti vedono uscire di casa ti tirano le madonne dal terrazzo, ma sono sicuro che ha eseguito queste operazioni perché la sentivo battere sui tasti.

Doveva avere una tastiera meccanica come la mia, che quando pigi sui tasti viene su la vicina a chiederti di piantarla di fare casino, perché la sentivo da casa mia e lei stava pigiando a Genova. E la telefonata era già terminata da dieci minuti.

Dopo mezz’ora che ho spedito il curriculum, mi ha telefonato una donna con un forte accento britannico e la voce da anziana attrice di teatro. Mi ha detto di chiamarsi M, e che doveva farmi alcune domande. Ho risposto che ero disponibile ad andare a Londra non appena la pandemia mi avrebbe permesso di uscire di casa senza farmi insultare dai vicini, ma che se voleva potevamo guadagnare tempo con un colloquio telefonico.

Mi ha detto che non c’era tempo di aspettare che la pandemia mi lasciasse uscire di casa senza farmi insultare dai vicini, e che se volevo potevamo guadagnare tempo con un colloquio telefonico.

Ho capito che era meglio se di lì in poi avessimo smesso di parlare ognuno nella lingua dell’altro, perché va bene la cortesia, ma non stavamo capendo un cazzo.

Il mio colloquio per entrare nel MI5 si è svolto per telefono in due lingue, ed è stato difficilissimo: M mi faceva le domande in inglese e io rispondevo in italiano su quello che capivo, poi lei valutava le mie risposte in base alla sua scarsa conoscenza dell’italiano e mi assegnava un punteggio.

“Nell’ultimo film di James Bond chi interpretava il ruolo del cattivo?”
“Devo riferire nome, grado e numero di matricola.”

“Qual è il vero nome della Regina Elisabetta?”
“Il Nordamerica, l’Oceania più un terzo continente a scelta.”

“A che ora passa l’ultimo autobus per Earl’s Court e come si chiama l’autista?”

“Uovo, guanciale e pecorino romano. Sale e pepe.”

“Che busta vuole, la uno, la due o la tre?”

“Il colonnello Mustard, nella sala da biliardo, con un cacciavite nell’occhio.”

“Va bene, è assunto. Comincia domani.”
“Accidenti, mi spiace. Ma grazie lo stesso per la bellissima opportunità. E se doveste ripensarci vi prego di contattarmi in qualunque momento.”

L’indomani ho ricevuto un pacco via corriere Bartolini. Sulla confezione c’era scritto Provenienza: London UK, e sotto in piccolo “Mi piaci, vuoi essere la mia ragazza?”. Ho detto al corriere Bartolini di piantarla di scrivermi sconcerie sui pacchi, o lo avrei segnalato ai suoi superiori.

Il pacco conteneva una valigetta, dentro una valigetta una busta con scritto sopra un grosso 3, una pistola Walther PPK e un manuale di istruzioni col mio nome sopra. Siccome lo so già come funziono non mi sono preso la briga di leggerlo, ho preso la pistola e sono andato alla finestra a vedere se quel rompicazzo del cane della vicina era sul terrazzo.

Non c’era, sono rientrato e ho aperto la busta. C’era la foto di un tizio con una grossa cicatrice sull’occhio destro, un passaporto inglese intestato a Hans Delbruck e un biglietto aereo per Macao.

“Ammazza se mi somiglia, questo tizio!”, ho pensato. Poi ho portato il passaporto ai carabinieri, spiegando loro che il signor Hans Delbruck ne avrà certamente denunciato la scomparsa, e ho chiamato un taxi che mi portasse di corsa all’aeroporto.

L’aeroporto di partenza era Heathrow, e la corsa in taxi mi è costata così tanto che non mi sarebbero bastati i soldi che avevo sul conto.

Per fortuna mi sono ricordato di avere una pistola. L’ho data all’autista come pagamento, e lui ha indossato un passamontagna ed è corso dentro l’aeroporto a rapinare il duty free.

Ci siamo incrociati sulla porta, io portavo la mia valigetta, lui aveva le mani piene di tobleroni.

Fuori dall’aeroporto di Macao faceva un caldo maiale, in un attimo mi sono ritrovato fradicio di sudore. C’era un uomo molto grosso in divisa da autista, che reggeva un cartello con scritto Mr. Delbruck. Sono andato da lui e gli ho detto di stare tranquillo, che il suo passaporto era già stato consegnato alle forze dell’ordine italiane, e comunque di cambiare la foto, che non gli somigliava per niente. Questo ha fatto una faccia strana, ha detto “Police?”. Io gli ho detto “Certo che li conosco, li ho visti dal vivo a Londra, qualche anno fa! Piacciono anche a te?”. Lui ha detto “London?”, io ho detto sì sì. Ha chiamato qualcuno al telefono, ma non so cosa si sono detti perché a Macao parlano cinese e portoghese, e siccome non parlo il cinese, ma un po’ di portoghese lo capisco, ho notato subito che la lingua in cui il mio misterioso interlocutore si esprimeva non era quella che parlano a Fatima. Fatima è in Portogallo, no? Vabbè, non ho voglia di controllare, quella che parlano a Lisbona, così non ci sbagliamo.

Quando ha finito di telefonare ha rimesso il cellulare nella tasca interna della giacca, e già che c’era ha tirato fuori una pistola dalla fondina ascellare e me l’ha puntata contro.

Mi sono sempre fatto un mucchio di domande sulle fondine ascellari, tipo se uno suda un casino poi sulla pistola resta la puzza? Metti che uno fa il poliziotto e a fine turno deve restituirla, e tutti sanno che è la sua per via dell’odore, e gli affibbiano il nomignolo di Ispettore Neutro Roberts, e lui ci soffre un casino e per vendicarsi si mette a fare la talpa per la malavita e passa informazioni importanti a un capomafia che ammazza il capo della polizia, e a quel punto l’ispettore Neutro Roberts ma il cui vero nome è Al Itosi si pente e torna dalla parte dei buoni e affronta il capomafia e lo arresta e lo porta in caserma e tutti lo applaudono e gli dicono bravo sei un eroe ma non lo abbraccia nessuno e c’è anche uno che corre ad aprire le finestre.

“Oh, ti sto puntando la pistola da un’ora! Mi caghi o no?”
“Scusa, mi sono distratto, la possiamo rifare?”

Ha smesso di puntarmi la pistola addosso e l’ha messa nel taschino interno della giacca, ma c’era già il cellulare, che ha provato a infilare nella fondina ascellare, ma gli è scappato dall’apertura inferiore ed è finito per terra. L’ha raccolto ed è rimasto lì a guardarmi, col cellulare in una mano e la pistola nell’altra.

“Se vuoi te lo tengo”, gli ho detto, indicando il cellulare.

“Grazie!”, ha risposto, e finalmente ha potuto infilarsi la pistola nella fondina, poi mi ha minacciato puntandomi addosso il dito indice.

Ho pensato che mi stesse chiedendo chi ero, e per cercare di superare le difficoltà linguistiche gli sono andato incontro e gli ho stretto il dito indice come fosse una mano. “Molto piacere, mi chiamo Pablo Renzi. E tu sei?”

Col suo dito indice intrappolato nella mia mano destra, l’uomo grosso in divisa da autista ha perso tutta la sua aggressività e si è messo a piangere. Mi ha detto che i suoi capi l’avevano mandato a prendere un cliente importante che si chiamava Hans Delbruck, e che non si aspettava certo di venire arrestato dalla polizia di Londra. Ma se lo lasciavo andare era pronto a rivelarmi il nome del suo capo, e dove potevo trovarlo.

Come ho detto prima, io il cinese non lo parlo, quando ha attaccato a piagnucolare ho smesso di ascoltarlo, e ho continuato a scuotergli il dito per paura che si offendesse, però non è che a stare lì con quel caldo ad agitare il dito di un omone in lacrime mi facesse sentire a mio agio, poi la gente chissà cosa va a pensare. Intanto che quello mi diceva chissà cosa ho agitato la mano libera e ho fatto fermare un taxi.

“Per favore, puoi dire a questo tassista che voglio andare in hotel? Ho una camera prenotata a quest’indirizzo, aspetta.”

Ho tirato fuori dalla tasca la foto del tizio con la cicatrice, sul cui retro era stato scritto a penna l’indirizzo dell’hotel. Non è stato facile, la tasca stava sullo stesso lato della mano che stringeva il dito dell’omone, ho dovuto usare la sinistra e contorcermi come quando devo aprire il portone di casa e ho il sacchetto della spesa che non posso posare perché in fondo ci sono le uova e sopra i mattoni.

L’omone frignone ha visto la foto ed è sbiancato, o almeno credo sia sbiancato, non so bene gli asiatici che colore si dice che prendano quando impallidiscono. Ha sgranato gli occhi e spalancato la bocca, come fa uno quando si spaventa, e mi ha detto Blofeld, che dev’essere una parola cinese perché in portoghese non vuol dire niente.

Ha detto al tassista delle cose e quello gli ha risposto delle altre cose, e mi hanno di nuovo fatto sentire escluso, ma insomma, si fa mica così con delle persone che hai appena conosciuto. Per la stizza mi sono rimesso le mani in tasca.

L’autista mi ha aperto la portiera e mi ha fatto segno di salire, e siccome non capivo l’omone mi si è messo dietro e mi ha spinto in macchina, poi ha tirato fuori un fazzoletto e si è asciugato i lacrimoni.

L’ho guardato dal lunotto posteriore, fermo sul bordo della strada a massaggiarsi il dito. Mi ha fatto pena, poverino, chissà cosa mi voleva dire.

Il taxi mi ha scaricato davanti a un edificio che non ho capito se era un hotel, ma ho sperato di no, perché dall’aspetto non me lo potevo permettere. Era composto da due edifici parecchio alti a forma di calorifero, ma non un calorifero normale, uno che potresti trovare nel bagno di un miliardario con la fissa dell’oriente, bianco e dorato, sovrastato da tettoie a forma di campana. A unire i due palazzi un edificio basso, a forma di arco, che culminava in una gigantesca tettoia ondulata tenuta su da quattro colonne. Sotto la tettoia dei vasi di fiori così grossi che dentro ognuno poteva starci non dico il giardino di mia madre, ma mia madre di sicuro.

A impedire che mia madre si infilasse di soppiatto in uno dei vasi, stava un tizio vestito di rosso, con un buffo cappello. Mi è venuto subito incontro e mi ha detto “Benvenuto al Ritz Carlton, signore”.

Ah ecco.

Quindi non c’era solo Babbo Natale a vestirsi di rosso e indossare buffi cappelli.

Avrei dovuto capirlo dal fatto che non aveva la barba.

“Salve, Ritz Carlton, mi chiamo Renz Pablon”, gli ho detto, mentendo. Speravo che se l’avessi colpito con l’assonanza mi avrebbe fatto lo sconto sulla camera.

Il tassista è sceso dalla macchina e gli ha detto qualcosa nella loro lingua piena di mistero. E allora! Ma che razza di cafoni!

Ritz Carlton mi ha fatto un sorrisone e mi ha accompagnato alla reception, dove una signorina che io quando lavoravo in hotel se avessi avuto delle colleghe così belle mi sarei perlomeno stirato la divisa mi ha messo in mano una tessera di plastica e mi ha detto che ci potevo aprire la porta e anche usarla al casinò per ritirare le fiches.

Per fortuna me l’ha detto nella mia lingua e ho capito, perché se invece che dirmelo me l’avesse scritto avrei travisato completamente e mi sarei fiondato al casinò a pretendere quella parte dell’equipaggiamento da agente segreto che non sono le macchine sportive.

Invece così sono prima salito in camera, tenendomi la visita al casinò per il momento in cui avrei dovuto saldare il conto. Avevo in mente di giocarmi alle slot i cinque euri che avevo nel portafoglio, vincere una carrettata di gettoni e raddoppiarli al tavolo del poker, dove modestamente sono una potenza: su quello di Windows vinco almeno una partita su venti, non so se mi spiego.

(continua)


Niente, volevo ricordarvi che il Pablog si è spostato su

http://www.pablog.it

Qui ci sono solo le zanzare.

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in prigione come nel monopoli

È più di un mese che non scrivo niente. Ma non qui sopra, in generale. È più di un mese che non metto in fila tre parole se non per spedire un messaggio a qualche amico. Di solito il pablog è quella cosa che utilizzo per raccontare cosa mi si sta muovendo nella pancia e cercare di dargli un nome e un significato, ma non sempre ci riesco. Adesso per esempio non c’è verso, ho un nodo nello stomaco. Non è necessariamente brutto, o legato a qualcosa di negativo, è più un insieme di sensazioni appiccicose che ha creato un robo duro e colloso, e non mi avvicino neanche a sbrogliarlo. È tanto stretto che non passano le parole, e anche l’attività consueta di raccontare diventa una tortura.

Quando passerà questa fase e il nodo si allenterà potrò afferrarne un capo e tirarlo lentamente, sciogliere la matassa e descrivere quello che ci troverò attaccato, ma per il momento è come dare pugni a un sasso. Ci ho provato per un po’, ma se c’è una cosa che ho imparato in questi anni è che le parole vengono da sole, e se le trascino sul foglio finiscono per dire qualcos’altro, e a me dire qualcos’altro non serve.

A presto, spero.


e ma allora

Io davvero non vi capisco a voialtri. Mi sbatto a crearvi un blog dall’indirizzo immediato, una grafica minimale accessibile da qualunque telefonino compreso il nokia coi tre tastoni biancorossoverde che ne hanno venduti tre esemplari in tutto e uno me lo sono comprato io, ci carico sopra tutti i post compresi quelli vecchivecchi rarissimi tipo di quando mi sono buttato in politica e sono diventato re della Nigeria ma avevo finito i soldi e sono stato costretto a scrivere email a chiunque per chiedergli due spicci in cambio di astute manovre commerciali che non mi potete dire di no, e voi state sempre a bazzicare qua sopra. Per dissuadervi ho anche postato una pagina del diario di Phil Collins, speravo fosse un gesto sufficientemente estremo per scacciare anche i più temerari, quelli temprati alle prove più impegnative, tipo andare da Cannes a Nizza seduti su un cancello a pedali nel giorno in cui la tua squadra del cuore perde tre a zero il derby, ma niente, tutti i giorni vengo a vedere le statistiche del blog e ci sono più visite del giorno prima. Di un paio posso intuirne l’identità, e mi prendo la briga di salutarli come si fa con gli amici: ciao papaperi! Di altri due posso intuirne l’identità e mi prendo la briga di salutarli come si fa con i personaggi famosi che cercano di non farsi riconoscere ma tu li hai sgamati lo stesso perché da bambino andavi sempre al circo: ciao amici col cerone! Di altri due posso intuirne l’identità ma non li saluto perché vengono qui tutti i giorni a cercare le gemelle Kessler nude e Sveva Sagramola altrettanto abbigliata, e sono dei pervertiti mascalzoni.

Poi a me piace immaginare che da qualche parte in mezzo a quelle statistiche grigie di googleanalytics compaia all’improvviso un puntino azzurro che mi riveli la visita di cortesia di qualcuno che una volta all’anno si fa un giro a respirare cose familiari, sai, uno vuelve siempre a los viejos sitios donde amo la vida, un po’ come quando sono a Londra e inevitabilmente finisco di fronte a quel Renoir, un po’ come la visita alla nonna, dove la nonna è quello stato d’animo in cui ogni tanto ti immergi quando non ti vede nessuno, giusto per ricordarti l’effetto che fa. Lo so che non è così, ma i racconti li scrivo saccheggiando questi pensieri qui, mica le pagine gialle.

Comunque la faccio breve, che ieri sera mi son successe delle robe strane e se me le tengo al caldo ancora un po’, invece di scriverle qui sopra, magari diventano un raccontino, o un capitolo di quella roba che tengo nel cassetto, e a proposito di cassetti vorrei regalarvi un vecchio racconto che avevo dimenticato in mezzo alle cianfrusaglie. Lo potete scaricare qui in formato epub.

Per tutto il resto vi ricordo che questo blog si è trasferito sulla pagina dal nome più figo: http://www.pablog.it

Non fatemi innervosire.


pussa via!

Non capisco perché continuiate a venire su questo blog che è chiuso e tutto il suo materiale è stato spostato sul blog nuovo dove c’è già un sacco di materiale inedito tipo racconti con svolte di rara sofferenza che qui se non ci ridiamo sopra signora mia è un attimo a finire in quella fogna dove una volta ci sta perché “è necessario che ciascuno scenda una volta nel suo inferno”, ma due vuol dire che sei scemo e non hai dignità e hai voglia a dire alla Donna  Senza Dignità che non ce l’ha se poi tu fai uguale, sebbene, va riconosciuto, rispetto a quelle lande desolate dell’animo umano tu ancora spicchi, ma che merito sarebbe, è come sfidare un tirannosauro a braccio di ferro, e non ho detto tirannosauro a caso, che in quei momenti quando ti prende la domandona esistenziale “ma tutte io le trovo?” il ricordo torna a quando i bestioni zannuti calcavano la prateria e c’era sempre il sole anche quando pioveva, mica come adesso che tanta precisione meteorologica non sa restituire una briciola di azzardo, ti dice che piove e piove davvero, nessuna sorpresa, l’unico coup de théâtre è talmente mediocre che sembra improvvisato e pure male da qualcuno che non ha capito il senso del copione, ma non è colpa loro Vostro Onore, sono questi nuovi cantanti che scrivono canzoni che non si capisce il senso, e uno deve tirare a indovinare, e finisce che alla ragazza che gli piace le dedica una canzone convinto che dica la vita senza di te fa schifo e scopre che quella ha capito sei una povera stronza capricciosa, o viceversa, non so, con questi artisti giovani e scapestrati ho delle difficoltà, mi organizzo per andare al concerto e limonare una e per la fatica di interpretare i loro testi mi trovo ancora a casa mentre la tizia in questione è là che si slinguazza a elica Coso, non ricordo bene, è una questione di qualità e io sono un paracarro, guarda un po’ a volte le curve della vita, stai sulla tua corsia e ti investe un pullman pieno di Hobbit in gita al nord che l’ha presa un po’ larga, ma se vai dietro anche a loro non vivi più, perciò ragazzi, grazie per le continue visite e le iscrizioni a questa pagina, ma il pablog si è trasferito a un altro indirizzo, venite a trovarmi di là che vi racconto due cose.

http://www.pablog.it


Diario di Phil Collins

Uè ciao raga!

Sono proprio contento di avere uno spazio per scrivere, perché il mio sogno è sempre stato quello di fare lo scrittore! Perché a una certa età il batterista.. cioè.. che sbatta! Sei sempre lì che martelli poi ti fanno male le braccia e non riesci più a metterti il cucchiaio in bocca senza sporcare tutta la tovaglia! No, veramente!

Lo scrittore invece sta lì e racconta le storie, ma vuoi mettere?

Oggi vi racconto quella di quando stavamo girando il video di I Can’t Dance, sapete no? Quella che prende per il culo le reclam della Levi’s.

Nella scena dove sono in spiaggia seduto sulla sdraio e suono la chitarra e passa la tipa e io le guardo il culo, avete presente? cioè, quella scena l’avremo girata tipo quaranta volte! Perché una volta la tipa è passata mentre cercavo di fare un fa minore e mi sono dimenticato di guardarle il culo, e il regista mi fa “oh Phil, non è che ti ho chiesto di cavare ferro da una miniera in Scozia eh?”.

La seconda volta gliel’ho guardato bene, ma c’era mia moglie sul set che si è incazzata e mi ha detto “Oh Phil, va bene recitare ma anche un po’ meno eh?”

Poi il cane si grattava, poi mi è entrata la sabbia nel costume, poi si è scordata la chitarra,  poi è arrivato il bagnino coi carabinieri che ci hanno chiesto i documenti e i permessi e ce la siamo telata con sdraio e tutto.

Oh, non ci hanno denunciato? Ci hanno messo i sigilli all’attrezzatura di scena, non potevamo più girare niente e avevamo ancora da finire il video entro l’uscita del singolo, mica potevi lanciare la canzone con uno sfondo bianco, no? Poi questi rapper di oggi ti parlano di disagio.

Allora mi è venuta un’idea della madonna! Ho detto al regista “E perché no?” e lui “E perché no! Perché MTV ce lo tira dietro! Michael Jackson mette fuori dei film di venti minuti con degli effetti paura e noi ci presentiamo con te che canti su uno sfondo bianco? Mattestaimale!”

Ecco cosa mancava! Michael Jackson! Mi è venuta un’idea come se mi avessero sparato, tipo. Ho fatto un salto sulla sedia e ho urlato “Ce l’ho!”.

Due ore dopo eravamo in salotto con un lenzuolo bianco dietro e c’ero io col vestito del matrimonio che prendevo per il culo Michael Jackson.

È venuto una figata! Lui veramente non l’ha presa benissimo, ma cazzomene, tanto è morto.

Ciao raga, ci si becca presto!

 


Questo blog si è trasferito su

Www.pablog.it

Qui oramai c’è solo Phil Collins

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qui finisce l’avventura del signor Bonaventura

La faccio breve. Ho deciso di lasciare questo spazio.

Mi sono successe delle cose che mi hanno obbligato a mettermi in discussione, e tirando giù dagli scaffali degli aspetti di me che non toccavo da un po’ ne ho approfittato per buttare via quello che non serve, e rimettere a nuovo quello che voglio tenere. Così ho cambiato le corde alla chitarra, ho cancellato il profilo di facebook e mi sono comprato uno spazio dove aprire il mio blog.

Ci vediamo di là.

www.pablog.it


apì

Ciao Pi.

Mi sono permesso di cancellare il tuo ultimo post, spero che non ti arrabbierai.

È che non credo fosse necessario.

Stai imparando un sacco di cose su te stesso, in questi ultimi anni. Certe volte ti guardo e davvero mi sembra di guardare un uomo adulto.
Sei intelligente, diverse volte hai dimostrato una sensibilità che non è così scontato trovare in una persona. E in certe situazioni difficili ti ho trovato diverso dal te stesso di prima, migliore. Più solido. Che non vuol dire più duro, anzi, ogni tanto può voler dire proprio il contrario.

Certo, hai ancora parecchio da fare, angoli da smussare, e c’è tutto un capitolo sull’empatia che andrebbe approfondito, ma ritengo che si debba guardare indietro oltre che avanti, e rispetto a dov’eri hai fatto un sacco di chilometri.

Sei anche fortunato, hai amici capaci di consigliarti quando ti fermi e aiutarti a correggere i tuoi errori, hai un’ironia ben oliata che ti evita di cadere nell’autocommiserazione, e credo che se ti lasciassi guidare di più dalla pancia riusciresti ad abbandonare i vecchi schemi rigidi a cui ti ostini a rimanere aggrappato.

È per questo che ho cancellato il tuo post. Era come urlare in faccia a qualcuno che non vuole capire il tuo punto di vista.
Spesso, se uno non capisce, la colpa è nostra, che non siamo stati capaci di spiegarci. Non tutti parlano la nostra stessa lingua, e accanirsi non serve a niente. Devi lasciarli liberi di comunicare a modo loro, e se occorre di farlo coi loro simili.

Non hai più bisogno di scrivere cose del genere, di portarti sulle spalle pesi inutili, di avere ragione a tutti i costi.

Volerla vinta significa non sapere accettare i propri sbagli, a che ti serve trascinarti dietro un vecchio errore? Guardalo, impara a non ripeterlo e lascialo lì.
E lasciaci tutto quello che ti fa male, è altro peso inutile che ti toglie il sorriso.

E a me piaci molto di più quando sorridi che quando mugugni.
Ti voglio bene,

Il tuo ombelico


il buco

Mi considero una persona abbastanza equilibrata. Ho i miei punti di forza e le mie debolezze, come tutti. Diciamo che sono nella media, che non vuol dire niente, è dove sta chiunque tranne Pietro Pacciani e il Dalai Lama.

Però ho un buco. Mi manca un pezzo. Non è una debolezza, qualcosa che si può rinforzare, è proprio che non c’è. Se un medico potesse guardarmi con una macchina che legge lo spettro psicologico, emotivo, il software toh, vedrebbe in un punto non meglio determinato, un punto che chiameremo comodamente “laggiù”, una grossa macchia nera. Se fosse una tac ci sarebbe da cagarsi addosso, ma per fortuna non è una presenza aliena, è piuttosto un’assenza. È un buco. Ci guarderebbe attraverso e vedrebbe il suo assistente di laboratorio fare lo stesso dall’altra parte.

In quella casella vuota ci dovrebbe stare la sicurezza di sé. Dico ci dovrebbe, perché in realtà nel mio caso non ci ho mai messo niente. Più o meno. Da ragazzino mi è venuto il dubbio che tenersi un buco laggiù non fosse una cosa sana, così ci ho lasciato nidificare una colonia di topi. Però squittivano, non mi lasciavano dormire, e dopo un po’ l’ho liberato di nuovo. Credevo che con la maturità sarebbe arrivata anche la sicurezza. Un po’ come i peli, no? Non è successo. Però ho ricevuto doppia razione di peli, e forse avrei dovuto reclamare allora, ma non sapevo a chi rivolgermi, e poi quando sei in piena pubertà hai un sacco di altre cose da scoprire, mi sono distratto, ho lasciato perdere. Ho sperato che non succedesse niente a tenermi il buco.

Devo dire che sono stato un po’ in ansia, certe notti mi svegliavo e mi chiedevo se mi stavo ammalando, mi toccavo la fronte, mi ascoltavo il cuore, muovevo le dita dei piedi. Mi sembrava tutto in ordine, trovavo solo qualche pelo nuovo.
Passa un anno, ne passano venti, e sono sempre vivo. Nessuna malattia psicosomatica, nessun organo marcito. Vabbè, tranne il fegato, ma quello dice il dottore che basterebbe uscire meno il sabato sera.
Mi sono rilassato, ho pensato che un buco laggiù non è una cosa così grave, e dopo un po’ ho anche smesso di pensarci.

Quando si sono manifestati i primi effetti non li ho collegati al buco, a tutti capita di non avere il coraggio di buttarsi da uno scoglio, e non provarci con una che ti piace è un po’ la stessa cosa: è vero che nessuno sbatte sugli scogli, ma se ogni tanto qualcuno muore vuol dire che è solo una questione di probabilità.
Poi è stato il momento di continuare gli studi, e mi sa che non me la sento. Io mica ne ho voglia, magari mi trovo un lavoro, che è più facile. Poi il lavoro che avevo trovato mi sembrava troppo complicato per me, e ne ho cercato uno più alla mia portata, solo che neanche quello mi andava bene, e scendi che ti riscendi sono finito a farne uno dove ci lavorava anche il mio compagno di scuola ritardato. Va detto che lui lo fa meglio di me, comunque.

La mia vita sentimentale non è andata meglio, per evitare di sbattere sugli scogli mi sono sempre accontentato di stare fermo in spiaggia ad aspettare che qualche ragazza meno sveglia delle altre mi inciampasse addosso. Non che mi lamenti, eh? Ho avuto una sfilza di fidanzate straordinarie dalle quali ho imparato un sacco di cose utili. Per esempio so cucinare il gallo pinto, che sarebbe un piatto a base di fagioli neri e riso, e adoro Calvin & Hobbes. Però, ecco. Per esempio quella di terza A che mi piaceva tantissimo non sono mai riuscito a parlarle, neanche quando ho scoperto che mi stava dietro. Bloccato, proprio. E allora ho capito che quel buco lì non ci doveva stare, che la sicurezza di sé è importante per spronarti a cercare il meglio per te stesso e non accontentarti di quel che arriva, perché se ti accontenti di quel che arriva non otterrai mai niente di buono. E mi sono detto che avrei cambiato le cose e sarei diventato finalmente padrone della mia vita!

È stato allora che ho scoperto il demone della procrastinazione. Perché io la volevo cambiare la mia vita, cazzo! Solo che prima dovevo scrivere delle cose, perché nel frattempo avevo scoperto di essere bravo a scrivere, o perlomeno che senza alcuno sforzo potevo tirare fuori delle cose decenti. Se ci fosse stato da sforzarmi non l’avrei mai fatto, perché tutti gli sforzi che faccio per portare a termine qualcosa finiscono rigorosamente nel buco, e pianto lì.

Sono arrivato a tre anni fa che mi era rimasto ancora qualcosa da scrivere, ma avevo quasi finito eh, poi mi sarei dedicato a cambiare la mia vita, e la mia fidanzata ha deciso che la vita me la cambiava lei, e mi ha spedito di casa. L’ho presa malissimo, ho fatto scenate, rotto le balle a tutti i miei amici e ai suoi, l’ho insultata, le ho detto che non la volevo vedere mai più, ma la verità è che avevo solo paura del mio buco. Cosa potevo fare se non sapevo fare niente? Chi lo avrebbe voluto uno con un buco laggiù? No, stavolta avrei fatto qualcosa di buono. E qualcosa di buono l’ho fatto, mi sono scelto un passatempo, e piano piano il buco è sembrato rimpicciolire, e col passatempo ho trovato anche una ragazza che il mio buco non l’aveva notato, oppure sì ma non sembrava dargli importanza, perché ne aveva uno grosso anche lei.

Fico! Magari riusciamo a riempirceli insieme! Poi mi sono reso conto che la frase si prestava a un casino di malintesi e sono arrossito. Lei ha riso e io mi sono innamorato del suo sorriso, perché era il sorriso più bello del mondo. Siamo stati innamorati come due adolescenti per esattamente 54 giorni, 17 ore, 51 minuti e 10 secondi, e sono stati il periodo più felice della mia vita, perché per una volta non ero stato fermo a farmi scegliere come nell’ora di ginnastica quando il prof decideva due capisquadra e loro chiamavano a turno quelli bravi, poi quelli decenti, poi gli stazzi, poi quelli che proprio non si potevano guardare, poi la bidella, poi il quadro svedese, e poi finalmente io. No, finalmente avevo voluto una cosa e mi ero sbattuto per ottenerla! Poi vabbè, sbattuto, le avevo detto che mi piaceva e lei aveva risposto anche tu, capirai, è stato più che altro culo, ma non toglie che sia stato un periodo in cui vedevo la mia vita a una svolta e mi sentivo pronto a raddrizzare ogni cosa, avrei cambiato lavoro, avrei cambiato città, animale domestico, marca di automobili, titolo di film, sarebbe stato fighissimo!!
Lei si è limitata a cambiare fidanzato. Ma neanche, si è ripresa quello che aveva prima.

È stato il momento in cui il mio buco che si era ridotto fino a sparire è diventato così grosso che ci sono caduto dentro, e per tirarmene fuori ho dovuto buttare via tutto quello che avevo nelle tasche, e poi tutto quello che avevo nella pancia, e poi tutto quello che avevo in testa, ed era veramente tantissimo. Ci ho buttato cose di me che neanche pensavo di avere, ci ho buttato altre persone, ci ho buttato mio padre, ci ho buttato famiglie di rospi e la colonia di topi che credevo se ne fosse andata e invece era ancora acquattata dietro la bile, ci ho buttato anche la bile, e il fegato, che tanto era da cambiare. C’è voluto un sacco di tempo, ogni volta che mi sembrava di riuscire a tirar fuori la testa scivolavo di nuovo e dovevo ricominciare, ma alla fine mi sono liberato, e mi sono sentito più forte di prima. Sarà che il buco era talmente pieno di roba che ci avevo buttato dentro che credevo si sarebbe limitato a sparire.

Mi sono messo a fare altre cose da capo, pensando che se era servito la prima volta sarebbe servito di nuovo, e infatti ho trovato altri stimoli, conosciuto altre persone, e quando è stato il momento di rimettermi in gioco ho sentito muovere delle cose laggiù, e ci ho trovato il mio amico buco. Si era mangiato tutto quello che ci avevo buttato dentro, e mi sorrideva. “Che c’è per cena?”, chiedeva.

“Eh, ci sarebbe questa ragazza..”
“Un’altra? Devo ricordarti com’è finita l’ultima volta?”
“Ma questa è diversa, dai. Mi sta dando prove certe che.. insomma.. sembra che ci tenga davvero”
“Certo, come quell’altra. Te lo sei fatto lasciare un curriculum?”
“Bah, non mi sembrava il caso..”
“Bravo scemo! E il libretto sanitario? E la fedina penale? E le referenze dei fidanzati precedenti? Che ne sappiamo che non è una scammurriata che scappa col malloppo appena ti giri?”
“Per quel che c’è da rubare, oramai. Ti sei mangiato tutto tu.”
“Metti che è una ladra di buchi!”
“Mi pare che ne abbia uno bello grande anche lei, se devo dirti.”
“Ah! Pure! E allora lo fai apposta! Hai visto cosa succede con quelle lì! Perché non te ne trovi una diversa, per cambiare?”
“Eh, non tutte le ragazze escono col buco.”

A dire il vero non lo sapevo se qualche ragazza si sarebbe detta disposta a uscire con un portatore non troppo sano di buco, mi ero di nuovo messo lì da una parte ad aspettare di vederne inciampare qualcuna, avevo notato questa e mentre ero lì che decidevo se ero pronto a buttarmi mi era crollata addosso, decretando così l’inizio della nostra relazione e anche un’ottima ragione per terminarla.
E sì perché la sicurezza di sé è una roba che quando costruiscono le persone non ce n’è mica abbastanza per tutti. Sarà che qualcuno fa il giro due volte e se la frega, ma secondo me il conto non torna comunque, perché quelli che non ce l’hanno sono troppi, e sembra che li incontro tutti io. Nella gara delle insicurezze certe volte arrivo secondo, ma non vinco un cazzo ugualmente.

C’è questo buco, laggiù, che si mangia qualunque cosa. Si mangia i tentativi che fai di vivere una vita normale, di avere una relazione stabile, un lavoro appagante. Si mangia la dignità di dire basta quando ti rubano dalle tasche, quando ti trattano come un cretino, quando ti usano. Si mangia il futuro perché non ti permette di immaginarne uno, si mangia il passato e te ne lascia una copia falsificata male, dove tutto era migliore di ciò che hai, anche quello che volevi buttare via.
L’unica cosa che non si mangia sono i topi, quelli non se ne vanno mai, e squittiscono e ti mordono le dita, e di notte non ti lasciano dormire più.